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Intersessualità

Che cosa significa, tra pregiudizi e paure

Le persone intersessuali presentano caratteristiche biologiche non conformi a quelle tradizionalmente associate al maschile e femminile. Vediamone i dettagli.

Che cosa significa essere intersessuale?

Sebbene la sua iniziale faccia ormai parte della sigla Lgbtqi+ da qualche tempo, il significato del termine “intersessuale” sfugge ancora a moltissime persone. Il motivo deriva forse dal fatto che intersex sia un’espressione “ombrello” e, in quanto tale, indichi una gamma di sfumature e alternative molto ampia, difficilmente riconducibili a una sola definizione.

In generale, tuttavia, con il concetto di intersessualità ci si riferisce a individui che presentano caratteristiche biologiche che non corrispondono a quelle tradizionalmente associate al sesso femminile e maschile, e che si sottraggono, così, al tipico binarismo di genere.

Nello specifico, le persone intersex presentano delle variazioni fisiche che possono riguardare sia gli aspetti sessuali del proprio corpo (ormoni, cromosomi, genitali, marker genetici, organi riproduttivi, gonadi), sia i caratteri sessuali secondari (tra cui barba, seno, mestruazioni e peluria). Tutto ciò che, quindi, concorre a “etichettare” una persona in base al sesso biologico di appartenenza.

E che, nel caso dell’intersessualità, crea una significativa variazione delle caratteristiche del sesso stesso, scardinando le nozioni abituali e andando oltre la dicotomia tra maschio e femmina. Motivo per cui, molto spesso, le persone intersessuali vivono nell’ombra, a causa dei pregiudizi e delle paure che tuttora le avviliscono e alle difficoltà di far comprendere agli altri la propria situazione. Vediamone i dettagli.

L’intersessualità è una malattia?

Essere intersessuale non è una malattia. Tendenzialmente, infatti, presentare tratti somatici differenti rispetto alla norma e derivanti da alterazioni funzionali o organiche non costituisce una minaccia per la salute fisica dell’individuo. Nonostante le evidenze scientifiche, però, lo stigma della malattia deve ancora essere abbattuto.

Lo dimostra la polemica relativa a quale terminologia sia meglio utilizzare per rivolgersi a tali caratteristiche biologiche. Nel corso della Consensus Conference organizzata a Chicago nel 2005, per esempio, alcune associazioni mediche hanno proposto l’acronimo DSD – Disorders of Sex Development (disturbi della differenziazione sessuale). L’obiettivo era quello di allontanarsi dall’utilizzo di espressioni divenute ormai vetuste e fuorvianti, quali ermafroditismo, ermafrodita e affini.

Il movimento intersessuale globale, però, ha contestato il riferimento patologizzante insito nella parola “disturbo”, proponendo di utilizzare “intersex” come unico termine ombrello (e “neutro”) per indicare tutte le variazioni congenite nelle caratteristiche del sesso (VCS). Senza più riferimenti alla sfera della malattia, ma con il solo scopo di dare piena legittimità alla percentuale di popolazione mondiale che viene al mondo con tratti intersex (circa l’1,7%, secondo le Nazioni Unite).

Il dramma delle persone intersessuali

L’intersessualità si presenta in una molteplicità di modi differenti. Uno di quelli più conosciuti prende il nome di sindrome di Morris, anche nota come “sindrome da insensibilità agli androgeni”. In questo caso, la persona intersex possiede dei testicoli interni, posti nella cavità pelvica dove, solitamente, vi sono le ovaie e l’utero. I cromosomi sessuali sono, quindi, maschili (XY), ma i genitali esterni sono femminili.

Ed è proprio qui, in questa ambiguità e commistione di tratti somatici differenti, che si innesta il dramma degli intersessuali. La maggior parte degli individui con variazioni intersex, infatti, sono costretti ad affrontare, fin da piccolissimi, operazioni chirurgiche volte a “normalizzare” le caratteristiche considerate “atipiche” rispetto ai diffusi stereotipi di genere.

A guidare la medicalizzazione (invasiva e irreversibile), il tentativo di far rientrare entro i binari propri del “maschile” e del “femminile” le persone intersessuali, condannandole, nel complesso, a una vita di sofferenza e inadeguatezza – anche a livello sessuale.

La condizione intersex è trattata alla stregua di un’emergenza, non medica, bensì morale e culturale. Ogni tentativo chirurgico deve, appunto, essere direzionato a rendere il sesso biologico “non conforme” il più socialmente accettabile, adeguandolo alle altre caratteristiche – cromosomiche, somatiche o organiche – più o meno predominanti (maschilizzazione o femminilizzazione forzata).

I risultati, però, non sono quasi mai positivi: i bambini operati hanno maggiore possibilità di diventare adolescenti e adulti ansiosi, depressi e non in sintonia con il loro corpo (che percepiscono come violato), e di ritrovarsi costretti in un sesso che non recepiscono come proprio, ma è, al contrario, fonte di angoscia.

Senza dimenticare, poi, la sofferenza causata dall’aver agito senza il consenso dei diretti interessati e dalla generale tendenza a non confessare (se non molto più avanti) la verità al bambino, in maniera semplice, diretta e adeguata all’età. Costringendo così, poi, un gran numero di adulti intersessuali ad avere costante bisogno del supporto di uno psicologo e di assistenza medica.

Intersex non è un orientamento sessuale o un’identità di genere

Anche il termine “intersex” non è esente da critiche. Molti, infatti, sostengono che esso possa causare dei fraintendimenti circa il suo significato, e che potrebbe essere facilmente confuso con un orientamento sessuale o un’identità di genere.

L’intersessualità, però, non ha nulla a che vedere con questi due ambiti. Perché? Perché l’orientamento sessuale, l’identità di genere e il sesso sono tre cose completamente diverse, sebbene spesso si assista (come negli anni Cinquanta) a una sovrapposizione di piani che tende a far combaciarne i confini. Non sempre, infatti, si verifica un allineamento tra il sesso assegnato alla nascita, il comportamento identitario e sessuale e il ruolo di genere atteso dalla società.

Dal momento che il “genere” indica la percezione che ciascuna persona ha di sé, e non la sua mera anatomia, anche le persone intersessuali possono essere cisgender, transgender, non binarie, agender, genderqueer o genderfluid.

Possono, cioè, avere una percezione di sé che corrisponde al sesso biologico, che si identifica con quello opposto, che si riconosce in un genere intermedio tra il femminile e il maschile, che non si associa a nessun genere o che, in generale, rifiuta gli stereotipi a esso connessi. Anche nel caso degli individui intersex, quindi, le declinazioni dell’identità sono molteplici, e possono mutare nel corso del tempo.

Così come l’orientamento. Anche chi è intersessuale, appunto, può presentare un’attrazione romantica e/o sessuale nei confronti delle persone dello stesso sesso o di sesso opposto (definendosi, in questi casi, omosessuale o eterosessuale), oppure essere bisessuale, asessuale, pansessuale, demisessuale e così via. Le caratteristiche del sesso biologico, insomma, non determinano la percezione che l’intersex ha di sé o il tipo di persona da cui è attratto sessualmente.

Attivismo intersessuale: oltre paure e pregiudizi

Ma da dove deriva tutta questa confusione? Essa è probabilmente conseguenza dell’attenzione, perlopiù morbosa, che le persone intersessuali hanno dovuto subire (e tuttora subiscono) nei confronti del carattere “atipico” dei propri genitali fin dalla più tenera età.

Le medicalizzazioni cui si è accennato intervengono, infatti, non solo sul sesso biologico in sé, ma anche sulla percezione che il bambino “dovrebbe” avere di se stesso, interrompendone, così, il percorso identitario e lo sviluppo. Con risvolti dannosi sul benessere psicofisico, soprattutto nel caso in cui l’individuo intersex sentisse il desiderio di cambiare la propria assegnazione di genere o soffrisse di disforia di genere.

Ed è proprio con l’intento di opporsi alle pratiche della chirurgia correttiva (simile, ma non per intenzioni, alla chirurgia di riassegnazione del sesso abbracciata dalle persone transessuali) che, nel corso degli ultimi decenni, è sorto l’attivismo intersessuale. L’istanza principale è rivendicare il diritto di procedere con il consenso del soggetto interessato e, in particolare, del bambino con tratti intersex, senza delegare la decisione ai genitori e, quindi, ai medici, mossi dalla volontà di “correggere” un’anatomia considerata non conforme e distante da quella “standard”.

Lo scopo dei movimenti intersessuali è, dunque, quello di eliminare il velo di segretezza, pregiudizio e vergogna che avvolge le persone intersex, rivendicandone i diritti e sensibilizzando la popolazione al loro riguardo. Lo stesso intento dell’attivista Cheryl Chase, donna intersessuale che nel 1993 ha dato vita alla prima associazione intersex del Nord America, ISNA – Intersex Society of North America. Punto focale dell’associazione è, appunto, la lotta contro la forzata medicalizzazione estetico-culturale, di cui alcuni interventi chirurgici possono essere accostati anche alle mutilazioni genitali femminili.

A essa si affianca, poi, la necessità di abbattere l’ignoranza che ammanta la tematica intersex, mediante momenti di formazione e incontro che possano creare consapevolezza, dare sostegno alla ricerca scientifica e supportare le persone e le famiglie intersessuali. In questo senso, in Italia, sono particolarmente attive realtà come KIO – Klinefelter Italia Onlus, AISIA – Associazione Italiana Sindrome da Insensibilità agli Androgeni, Intersexioni e Intersex Esiste. Perché ogni corpo ha diritto di esistere e di essere trattato con dignità.

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